Serve
una nuova soluzione globale
Di
Carlo Pelanda (3-11-2008)
Martedì l’America sceglierà il presidente. L’esito
elettorale sarà particolarmente importante per il resto del mondo perché la
locomotiva americana che da più di 60 anni traina la crescita del mercato
mondiale ha gravi problemi di funzionamento. Infatti
sta rallentando, causando via minori consumi interni una rapida recessione
globale per caduta delle importazioni. La gestione politica sarà determinante per accorciare o allungare i tempi di riparazione
del sistema economico e finanziario
statunitense. Sarebbe meglio Obama o McCain? Difficile valutarlo perché i loro programmi
politici non sono stati aggiornati in relazione agli
ultimi sviluppi della crisi e certamente chi dei due vincerà dovrà farne di
nuovi. Nell’attesa vediamo un problema che richiederà comunque
nuove soluzioni .
Al momento le
previsioni tendono a convergere su un’ipotesi di recessione in America che duri
almeno tre trimestri, a partire dal terzo del 2008 (Pil a -0,3%). La deflazione sarà trasferita ai Paesi che
più dipendono dall’export. La Cina fa il 32% del suo Pil via esportazioni dirette negli Usa ed il 42%
aggiungendo quelle verso Europa e Giappone. Germania ed Italia sono le economie europee più dipendenti dall’export. Il calo
della domanda sia in America sia in Cina, colpirà ambedue ed il Giappone. Se
veramente l’America riprendesse la crescita nella primavera del 2009 l’impatto
sul resto del mondo sarebbe grave, ma non al punto da
destabilizzare l’economia globale. Tuttavia c’è un problema
strutturale. Certamente l’America ha un sistema economico flessibile e
vitale capace di reagire con velocità alla crisi recessiva. Ma non
necessariamente quando tornerà in crescita lo farà con un
forza tale da trainare il resto del pianeta come nel passato perché il
suo sistema interno è stato seriamente danneggiato e ha bisogno di riparazioni.
Se l’America restasse a bassa crescita per un periodo prolungato i Paesi più
dipendenti dall’export dovrebbero bilanciare con più
crescita interna la riduzione di quella esterna. Ma
europei, giapponesi e cinesi sono in grado di modificare il loro modello
economico in poco tempo? La Cina finanzia con export
l’industrializzazione e la migrazione dalla città alla campagna. Sta usando
tale modello da metà degli anni ’80 con successo. Proprio per questo non le
sarebbe facile modificarlo in poco tempo. Le cronache ci mostrano ogni giorno
quanto sia difficile, sia per europarametri
sia per problemi di consenso, ridurre anche di un pelo le tasse in Italia e
negli altri Paesi dell’eurozona per stimolare la
crescita interna. Il sistema consociativo nipponico è altrettanto rigido pur
per motivi diversi. In sintesi, se l’America importasse di meno per tre anni le
altre principali economie del mondo non riuscirebbero
a compensare via maggiore crescita interna. La crisi di deflazione diventerebbe
grave e ciò potrebbe destabilizzarle. La loro moneta
cadrebbe, le crisi di insolvenza sarebbero devastanti,
la gente chiederebbe soluzioni protezioniste ed assistenziali che
peggiorerebbero il quadro. L’America importerebbe questo caos dal mondo, destabilizzandosi anch’essa, e certamente non è nel suo
interesse. Per questo chiunque sia il presidente tenterà
di farla tornare locomotiva robusta. Ma non sarà
facile né breve. Per questo il nuovo presidente americano dovrà avere un’idea
in più, ma anche noi europei. Quale? Una nuova architettura politica del
mercato globale. Sarà inevitabile per salvarlo e salvarci.
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